Le religioni si chiedono chi abbia creato l’Universo.
La scienza si interroga su come sia nato e, in subordine, se nell’Universo ci siano altre forme di vita.
L’Astronomia genetica si domanda se l’Universo sia in sé vita, se cioè è possibile pensare a questo Universo (senza peraltro escludere altri Big Bang e altri Universi) come a un organismo vivo e vitale, di cui la Terra e il Sistema solare non sono che una parte infinitesimale, atomica, della struttura (del tessuto) che lo compone.
Se si accoglie l’ipotesi secondo la quale la nascita dell’Universo non è stato un accadimento accidentale ma, come per le nascite che conosciamo, il frutto di circostanze non casuali ma causali legate all’espressione di una Intenzione in grado di determinarne l’accadimento e di orientarne gli sviluppi nel tempo, la naturale conseguenza è solo una: l’Universo non è solo una creazione: è esso stesso una creatura, un organismo vitale di dimensioni incalcolabili: qualcosa di singolarmente (nel senso di unitario) e ‘specialmente’ fecondato e vivente. E se così stanno le cose, la Terra – che da quell’evento iniziale è derivata – altro non è che una minuscola parte di quell’organismo misterioso che, a quanto pare, è tuttora in espansione (e quindi in crescita).
Forse è venuto il momento di farsene una ragione.
NEL NOME DEL PADRE
PROLOGO
La sua voce era serena. Il tono quieto. Come di chi ripercorre col pensiero una strada assai familiare, conosciuta in ogni pietra, sicura ad ogni passo.
"Nessuno saprà mai nulla di loro. Scomparsi come un disegno della fantasia. Dissolti come i vapori del mattino. Perduti per sempre. Se mai, in fondo, sono poi esistiti. Perchè la mente si perde, mi creda, a tentare di farsene memoria. E' confusa dai riverberi smorti, imprecisi, argentei dell'allucinazione. Come quando, all'imbrunire, si cerca di dare contorno e nome a un'ombra che avanza sul sentiero".
Nessuno saprà mai nulla di loro.
Ecco, sono state queste parole a dettarmi la volontà di non seppellire di nuovo, sette secoli dopo i giorni trascorsi in settecento anni, quei volti che intravvedo con gli occhi del ricordo e della fantasia, giovani e dolci; quei sorrisi sereni e mesti, quesgli sguardi scintillanti e stupiti.
Quella storia misteriosa, e magica, e infernale.
Seduto di fronte a me, nella fredda penombra di pietra della stanza, il frate aveva intrecciato le dita delle mani. Lunghe, nodose, asciutte, piccoli rami di nocciolo. Le unghie opache, curve e spesse, come gli artigli dei vecchi.
Vestiva un saio troppo grande per lui, i piedi scalzi nei sandali di cuoio. Il cappuccio, alzato attorno a quel capo piccolo, al cranio quasi calvo, al volto scavato e confuso in una barba ispida e rada, calava gli occhi in un cavo d'ombra dal quale solo a tratti emergevano, come segnali luminosi e inquieti, i riflessi mobili e brillanti di uno sguardo vivace e attento.
Sedeva, affondava quasi, in un vecchio scranno di legno consunto, anche questo troppo grande per lui, tra rustiti intagli di viticci bruni e severi richiami a una vendemmia per sempre trascorsa e mai, a giudicare dal risultato di quel gran lavorio di bulino e di gesti intagliati, felice.
Sul largo tavolaccio che ci separava aveva accumulato giorno dopo giorno, a mano a ano che il nostro incontro si era dipanato di appuntamento in appuntamento, antiche carte sopravvissute alla voracità dei topi, all'umidità dei muri, ai caotici riordini degli uomini, alle tempeste degli eventi. Le carte, in una parola, sopravvissute al tempo.